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INTERVISTE LEASECREDI: PAROLA A DILETTA MUREDDU

Durante questa settimana sono state diverse le manifestazioni e gli eventi per sensibilizzare il paese riguardo politiche lavorative più inclusive per le donne, ci sono stati anche eventi di digitalizzazione per le donne e diverse discussioni pubbliche. Noi non siamo di certo da meno, per questo abbiamo deciso di intervistare Diletta Mureddu, Responsabile al Centro Donna Cgil Cagliari. Abbiamo chiesto lei di darci uno spaccato sul lavoro delle donne oggi in Sardegna e di quali potrebbero essere gli spunti positivi per il futuro.

  Il centro donna CGIL Cagliari cosa fa e come aiuta le donne?

Il centro donna CGIL Cagliari si occupa di fornire sostegno psicologico e legale alle donne che subiscono violenza domestica e discriminazioni e molestie nei luoghi di lavoro. Io mi occupo della parte psicologica, essendo una psicoterapeuta, ed è attiva anche una convenzione con un’avvocata per la parte legale. Inoltre il centro fornisce consulenze sui temi legati alla maternità, conciliazione e diritto del lavoro. Nel tempo ha costruito anche una rete di rapporti con tutti i luoghi per le donne: associazioni, centri antiviolenza, enti locali, assessorati alle Pari Opportunità, istituzioni locali, al fine di creare una rete di relazioni e politiche di sviluppo a vantaggio delle donne.

Negli anni è vero che le donne hanno avuto sempre più accesso al mercato del lavoro, ma a una maggiore presenza purtroppo non corrisponde una buona qualità del lavoro femminile : le donne hanno maggiori difficoltà a ottenere posti di lavoro più garantiti e accettano più degli uomini contratti di breve durata e con scarsa remunerazione. La presenza asimmetrica di donne e uomini nel mercato del lavoro è basata da un lato sul prevalere di modelli tradizionali di divisione dei ruoli fortemente stereotipati, dall’altro su una cultura organizzativa aziendale che premia la presenza fisica al lavoro e la disponibilità di tempo, a discapito della qualità e dell’efficienza. Le donne son ancora molto lontane dalle cariche dirigenziali, perché persistono diffusi stereotipi di genere legati anche alle scelte negli studi, per cui si pensa che le donne siano poco portate per le materie scientifiche e ciò determina che ancora troppo poche si iscrivano a questi corsi di studio con la conseguenza che vengono loro preclusi determinati tipi di lavori apicali del settore bancario, assicurativo finanziario, ingegneristico e scientifico. Anche se le iniziative da parte delle scuole e delle università su questi temi si stanno diffondendo per fortuna.

Le donne purtroppo sono ancora fortemente discriminate nei luoghi di lavoro e la maternità è ancora la prima causa di discriminazione e sono sempre più diffuse le molestie sessuali. Racconto sempre di un caso, quello di una donna giovane, neo madre, a cui il datore di lavoro dava puntualmente ogni mese lo stipendio uno o due mesi in ritardo rispetto ai colleghi. Questo accadeva solo a lei su 60 lavoratori e lavoratrici. Quando ho contattato il datore di lavoro chiedendogli le ragioni, la sua risposta è stata:“Voglio portarla a dare le dimissioni visto che a me la legge impedisce di licenziarla (entro il primo anno di vita non si può), d’altronde questa cosa di farsi mettere incinta non me la doveva fare. Me l’aveva promesso. E poi si è messa pure in gravidanza a rischio quando si vedeva che stava benissimo”. Vedete come la donna viene oggettivata e spersonalizzata e nel momento in cui compie una scelta che è quella di avere un figlio, ecco che scatta la violenza.

  Il contesto lavorativo per la donna sta migliorando?

Sono allarmanti i dati che l’istat ha pubblicato qualche settimana fa in cui la Sardegna è una delle regioni con il più alto numero di molestie sul lavoro. Ciò perché se da una parte le donne hanno sempre più accesso al mercato del lavoro, dall’altra sono sempre quelle più precarie e quindi anche quelle più ricattabili e vulnerabili. Per questo , serve formazione, informazione , sensibilizzazione, serve consapevolezza. Formazione sia nelle aziende per educare alla valorizzazione delle differenze di genere, alle pari opportunità e per avere gli strumenti anche conoscitivi per riconoscere le molestie e le discriminazioni e sapere come agire. Le molestie sono quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale e non verbale aventi lo scopo di violare la dignità della lavoratrice. E purtroppo ancora si continua a sottovalutarle e a considerarle solo come goliardate o corteggiamenti particolari. I dati ISTAT appena pubblicati ci dicono che una donna su sei in Italia è oggetto di molestie da parte di colleghi, capi, datori di lavoro. 167 mila donne hanno subito ricatti sessuali per essere assunte . Oltre l’80% non ne parla con nessuno , quasi nessuna fa denuncia. I motivi sono facilmente individuabili. La paura è quella di perdere il posto di lavoro e si preferisce tacere.

Le donne purtroppo oggi per queste ragioni e per le difficoltà di conciliazione vita-lavoro abbandonano sempre di più il lavoro. Il dato piùsignificativo arriva dall’ispettorato del lavoro che registra una diffusione consistente di dimissioni volontarie da parte delle lavoratrici madri. Nel 2016 il 78% delle dimissioni ha riguardato le madri e solo il 22% i padri. Parliamo di 27 mila donne. Quella che cresce è la percentuale delle madri che si dimettono perché non ce la fanno a gestire lavoro e figli. Tra le motivazioni più frequenti assenza di parenti di supporto, mancato accoglimento al nido, costi troppo elevati per l’assistenza dei neonati nei nidi privati o baby sitter. Un sistema fatto di politiche insufficienti a garantire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha fatto siche il 30% delle madri che hanno un lavoro lo interrompa alla nascita di un figlio, questo commenta nel suo ultimo rapporto l’alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Anche all’estero si lascia il lavoro una volta madri, ma mentre all’est ero le uscite sono temporanee perché si rientra al lavoro quando i figli sono cresciuti, in Italia ciò non accade. Inoltre occorre dire che le difficoltà economiche e la crisi di lavoro incidono sul benessere famigliare acuendo in certi casi i comportamenti violenti da parte del partner nei casi di violenza domestica e soprattutto impedendo alle donne di rendersi indipendenti finanziariamente e potersi liberare della violenza.

  Cosa pensi si possa fare per migliorare ulteriormente questa situazione?

Vi racconto di una donna di 60 anni che era venuta da me per essere aiutata. Aveva un figlio gravemente disabile di 20 anni. Il marito le metteva il lucchetto allo scaldabagno di inverno impedendone di usare l’acqua calda perché diceva che la sprecava e lei era costretta a scaldarla davanti al caminetto per lavare il figlio. Mi diceva: “Diletta dove me ne vado, non ho una casa, un lavoro e con mio figlio cosi poi.. “ecco episodi cosi ce ne sono davvero tanti e queste sono alcune delle ragioni per cui le donne non denunciano e non abbandonano il compagno, oltre che per la paura dell’uomo violento e per il senso di colpa. Avere un lavoro è un aspetto determinante non solo per la parte economica, ma anche perché il contesto lavorativo può in certi casi supportare la donna nel rompere la dinamica di sottomissione. Il lavoro è fondamentale per ripartire.

Occorre diffondere le misure che sono contenute nel job act in cui le donne vittime di violenza domestica hanno diritto a un congedo retribuito di tre mesi. Per molte donne la violenza famigliare significa abbandonare il lavoro per nascondersi o trovare rifugio in una casa protetta. Per cui la possibilità di usufruire del congedo di tre mesi, fruibile anche a ore, è un sostegno per la donna che decide di affrontare il percorso di affrancamento dalla violenza. La violenza maschile contro le donne è il sintomo del rapporto asimmetrico tra uomini e donne, uno squilibrio di potere che caratterizza questo tipo di rapporto. Insomma non parliamo di raptus, di omicidio passionale, di maltrattante straniero o tossicodipendente perché questo uso scorretto del linguaggio alimenta ancora di più gli stereotipi e crea disinformazione impedendo di vedere davvero il fenomeno per quello che è. Vittime e aggressori appartengono a tutte le classi sociali e culturali e a tutti i ceti economici.

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